Marzo ’07

Sottotitoli febbraio’07

La tradizione vuole che all’alba di ogni mese scatti il Sottotitolo, l’affondo, il pensiero di compagnia che farà da centro accoglienza ai visitatori abituali e/o occasionali del blog, ed anche stavolta la scadenza viene rispettata. Prime ore di Febbraio ed ecco alzarsi il sipario su un nuovo condensato di filosofia ultras, gradito ai più, che però in occasione delle sue ultime apparizioni ha provocato anche prese di posizione opposte: apprezzabili in quanto esternazioni di un pensiero da parte di qualcuno che vive il nostro stesso mondo, ma non completamente condivisibili. D’altronde esistono divergenze storiche perfino sulla concezione del termine ultras, come pure su tutto il contorno più o meno colorito che fa di questa nostra passione nel bene e nel male un ottimo deterrente all’omologazione cui tanti, troppi, giovani e meno giovani, non riescono a sottrarsi, figuriamoci come non possano nascere delle opinioni contrastanti relativamente ad una riflessione. Vero anche che, al di là di ogni possibile differenza concettuale, e ben lontani comunque da alcun pregiudizio di sorta, sussistono una serie di affinità, quei punti delle singole assi che però in alcuni casi si incrociano e finiscono per non essere parallele, o per dirla con la matematica: il minimo comune denominatore. Nel nostro contesto a farla da padroni sono la fede per la propria squadra, lo spirito ribelle, la memoria storica, il forte senso di territorialità, l’accentuato orgoglio e senso di appartenenza ad una città o alla propria realtà ultras, l’opposizione al sistema ed ai suoi difensori armati. Parole sante direte…

Constatazioni banali aggiungeranno altri, ma ultimi vessilli probabilmente che non soffrono di instabilità. Allora affrontiamolo questo argomento, svisceriamo approfonditamente le avversità che mettono in serio pericolo il futuro del movimento, cerchiamo delle eventuali similitudini e mettiamo subito in piedi, ove possibile, una strategia comune per arginare il rischio e limitare i danni. Spazziamo in tribuna alla “Viva il parroco” questo cross teso che domenicalmente, ma non sarebbe sbagliato dire quotidianamente, spiove nella nostra area di rigore, già di per sé intasata da altre più o meno superabili difficoltà. Ci accorgeremo di una cosa semplice, forse banale anch’essa, ma maledettamente vera: siamo tutti dalla stessa parte! Tutti sulla stessa barca! Ed il mare aperto che affrontiamo, incuranti dei pericoli e della cosiddetta convenienza dell’indifferenza, non è altro che uno stimolo in più per continuare, per non mollare, per non indietreggiare. Anche perché, e questo è un particolare di rilievo assoluto, noi non facciamo altro che difendere la nostra fede, vivere la nostra vita, e tutto ciò che in essa è prioritario, a modo nostro, senza schemi e calcoli, spontaneamente, sbagliando in alcuni casi ma sempre in buonafede. Scritturati da nessuno, schierati sì ma non come pedine di un gioco da tavolo tantomeno come maschere del burattinaio. Noi stessi, sempre e comunque, nonostante tutto e tutti. E, cosa molto importante, veri, leali, coraggiosi. Imprevedibili? …sì, se vogliamo, perché certo non rappresentiamo un surgelato che ha bisogno solo di una semplice cottura. Emotivi sicuramente, perché siamo così come mamma ci ha fatto, nessuno ci ha modificato geneticamente e per questo risultiamo antipatici e diversi.

Essere, appunto, e non apparire. Essere se stessi! Fregarsene dei moralisti, dei benpensanti, dello sguardo schifato di chi crede di trovarsi di fronte l’ignorante di turno non sapendo che magari dietro quel taglio di capelli strano e quel tatuaggio sul braccio c’è un laureato in sociologia o un libero professionista, un esponente della “società civile”, come amano chiamarla i politicanti, che sopravvive sei giorni in ufficio per poi tornare a vivere la domenica. E poco gli importa se si giochi di mattina o pomeriggio! C’è sempre, e ci sarà sempre, finché potrà prestare il suo calore all’amore per la maglia condividendo le emozioni di una vittoria e lo sconforto di una sconfitta, l’indifferenza di un pareggio ma soprattutto i sorrisi e la goliardia di una trasferta con i suoi fratelli di curva. Essere noi, per come siamo, per quello che siamo. Questa è la prima regola, la prima arma di difesa da opporre al disegno offensivo dell’avversario. Badate bene, ognuno nel suo piccolo. Perché sembrano tramontati i progetti agglomeranti che pure avevano fatto ben sperare nel corso degli ultimi anni. Le strumentalizzazioni tentate, le infiltrazioni politiche, le pregiudiziali e le rivalità insormontabili hanno messo al tappeto l’unione delle forze, intesa naturalmente come momento di sintesi delle diverse esperienze di gruppo incrementate dall’elaborazione di una contromossa comune. In più di una curva sono cresciute le fratture, tra chi sposava l’idea e chi la considerava inopportuna, e per questo il lavoro portato avanti da due-tre unioni, chiamiamole così, è definitivamente andato in archivio, salvo tornare utile in occasioni particolari, come per alcune grandi manifestazioni anti-repressione svoltesi di recente.

“…contrastare chi da sempre è intenzionato ad uccidere l’identità ultras” era uno dei punti fermi di questi raduni, ma va anche sottolineato come fosse prevedibile una diversa interpretazione da curva a curva. “L’odio porta onore e l’onore porta rispetto” è una delle frasi più significative di un quasi-tascabile che non dovrebbe mancare nella libreria di un malato cronico: la prospettiva di una forza comune portata avanti radicalmente avrebbe garantito risultati positivi per tutto il movimento ultras nazionale, ma non è detto che anche lavorando ognuno nella propria realtà il “prodotto finale” non possa essere all’altezza della situazione, pronto ad opporsi al killer in cerca di teste. Ed allora bisogna essere quel che si è davvero: oggi come oggi è la parola d’ordine per noi. Come per tutti coloro che vogliono issare un muro di difesa del proprio piccolo grande mondo, per difenderlo dalle insidie e farlo crescere liberamente. “Perché è giusto che gli ultras siano liberi di andare allo stadio e non costretti ad andare in Questura o in Commissariato, perché è giusto che siano liberi di prendere un treno senza che qualcuno chieda loro se stanno andando in trasferta, liberi di dare il benvenuto alla tifoseria avversaria nel modo che più gli si confà”. “Sì, certo, l’unione fa la forza, figuriamoci se non avrebbe fatto la forza l’unione delle bande più rispettate d’Italia… ma a quali condizioni?” Su, avanti così, ognuno sia quello che è. Noi pensiamo ad essere, per l’apparire è finito il rotolo dei numeretti…