In casa con il Selargius

Al posto giusto,

nel momento sbagliato!

Una trentina di anni fa, ma anche qualcosa di più, nelle domeniche di pioggia, gli avversari preferivano concedere una rimessa laterale ai rossoblu, piuttosto che rimetterci una coscia o un gluteo per recuperare un pallone che terminava la sua corsa nel fosso ai lati della linea bianca del vecchio “Ottorino Fabiani”. Tra le maglie di una rete ormai vetusta ed arrugginita, spuntavano ombrelli con punte taglienti come lame. Avvicinarsi alla rete, per un giocatore ospiti, era quasi peggio che infilare la mano in un cancello con l’avviso “attenti al cane”.

A fine gara, si contavano feriti e contusi come in un campo di battaglia, tutti tra le fila degli avversari e chi riusciva a rientrare sotto la doccia senza nemmeno un graffio, doveva considerarsi baciato dalla fortuna. Era più facile ritrovarsi infilzato a bordo campo, piuttosto che portare addosso i segni dei tacchetti del numero 4 in rossoblu. Una trentina di anni fa, tutti uscivano sconfitti dal “Fabiani” e chi ebbe la fortuna di andar via con una vittoria, non gioì, bensì pianse per il dolore e le ferite rimediate sul terreno di gioco.

Erano altri tempi, tempi in cui il massimo del divertimento per un giovane era suonare i citofoni di perfetti sconosciuti; erano altri campi, campi di sabbia, pozzolana per la precisione, che diventava fanghiglia nei mesi invernali; erano altre generazioni, generazioni vecchio stampo, che non capivano nulla di calcio ma nulla li avrebbe allontanati dal “Fabiani”, nemmeno un acquazzone, nemmeno una retrocessione; era un altro calcio, calcio inteso come sport, aggregazione, emozioni vere.

Una trentina di anni fa oltrepassavi il cancello del “Fabiani” sapendo già che ti saresti dovuto accontentare di un posto all’in piedi vicino la bandierina del calcio d’angolo o al massimo del muro di recinzione, se ti diceva bene ed eri abbastanza atletico per saltarci su, stando attento ad evitare le scaglie di vetro mischiate alla malta. Una volta sul muro, il cuore iniziava a battere sempre più forte; quando vedevi le squadre scendere i tre gradini che dividevano gli spogliatoi dal campo eri già tutto un fuoco di passione; per non parlare di quei secondi che passavano veloci mentre l’arbitro e i guardalinee controllavano che tutto fosse in ordine per partire. Al fischio d’inizio già te l’eri fatta sotto dalla paura, pochi secondi ed eri già ferito ai palmi delle mani per aver esultato senza un filo di intelligenza al gol dei rossoblu.

Tutto questo accadeva trent’anni fa, ma anche qualcosa di più, quando le gare si giocavano solo la domenica pomeriggio e se proprio non volevi abbandonare la Serie A, la potevi sempre ascoltare da una radiolina a batterie, con la voce di Ameri che faceva “a cazzotti” con le frequenze di Radio Radicale.

Oggi, invece, al posto del “Fabiani”, l’urbanizzazione sfrenata degli anni ’90 ci ha donato un “Purificato” di cartapesta, metà cemento e metà ferraglia, che le nuove generazioni non hanno mai conosciuto ed al quale hanno sempre preferito altro. Oggi, il “Purificato” potrebbe essere paragonato, senza pericolo di incorrere in errore, ad un teatro con tanto di posti a sedere in galleria e platea, se non fosse per l’unico elemento di rottura, che fa di questo impianto uno stadio in tutti i sensi, ovvero la Curva Iacuele.

La Iacuele, unico baluardo a difesa dei colori rossoblu; trincea di sentimenti, emozioni, gioie e dolori; campo di battaglia delle nostre domeniche. Al “Fabiani” mancava una curva come la Iacuele, alla Curva Iacuele manca il “Fabiani”!

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